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Alessandro Reati

Categories: AIF,Interviste

ALESSANDRO REATI

Reati Alessandro
Practice Businness Leader
Cegos Italia

L’innovazione tecnologica sta trasformando le relazioni umane, e il cambiamento è stato percepito anche all’interno delle organizzazioni e delle aziende con cui collaboriamo. La formazione deve innovare metodi, strumenti e spazi al fine di valorizzare la persona in un contesto sempre più digitalizzato. Quali sono i principali cambiamenti da realizzare? Il cambiamento porta con sé elementi positivi? e quali?
Il Boston Consulting Group nel 2012 osservava le dinamiche di mercato e affermava che il processo d’innovazione costante della digitalizzazione stava cambiando internet. Da una rete tipica delle nazioni sviluppate, con accessi da postazioni fisse, ad una rete diffusa anche e soprattutto nelle nazioni in via di sviluppo e con accessi prevalentemente mobili. Il che avrebbe anche generato una trasformazione da fruizione ad interazione ed una conseguente esplosione di dati disponibili e evidenti difficoltà nella gestione degli stessi. In sintesi: “the scale and speed of change are indelebly altering industry structures and the way that companies do business”.
Jeremy Rifkin, appena l’anno prima, nel 2011, dichiarava che stavamo entrando nella Terza Rivoluzione Industriale. Rifkin salutava la diffusione di forme di comunicazione digitale e la necessità di rivedere la gestione energetica come un positivo momento d’innovazione delle relazioni tra individui, sistemi sociali e ambienti. I 5 pilastri su cui si Rifkin vedeva le fondamenta della Terza Rivoluzione Industriale erano: passaggio alle energie rinnovabili; conversione degli edifici in centrali produttive; idrogeno e altre tecnologie per l’immagazzinaggio di energie; tecnologia Smart Grid; trasporti non alimentati da combustibili fossili. Richiamava poi la necessità di promuovere una rivoluzione culturale il cui principale obiettivo sarà lo sviluppo di una “coscienza biosferica”.
Già nell’ormai lontano 2001 Kimbal Fisher, nel suo volume anticipatorio “The Distance Manager” osservava che era ormai necessario rivedere le forme di comunicazione professionale e manageriale entro le organizzazioni complesse: le differenze di spazio, tempo e cultura rendevano ormai imperativo lo sviluppo di una sensibilità sociale e tecnologica nella creazione e nella cura delle relazioni, anche in quelle a distanza.
La formazione è sempre stata una pratica eclettica, in grado di usate metodologie e supporti tecnici variegati. Scegliere se operare a distanza o in remoto, favorendo l’apprendimento individuale o di gruppo può derivare solo da un preciso momento di analisi a monte dell’intervento. Ciò che chi si occupa di formazione deve fare è non innamorarsi delle tecnologie di comunicazione (che sono strumenti per produrre un risultato) e rimanere centrato sullo scopo dell’attività. La formazione dovrà, infatti, continuare ad aiutare le persone a comprendere il proprio e l’altrui potere e l’impatto che questo può avere sulla vita propria e degli altri. Il cambio delle tecnologie non trasforma il senso delle relazioni ma solo la loro forma. Ricordiamoci allora la rodata definizione di Rollo May. “il potere è la capacità di causare o impedire un cambiamento” e la sua illuminante sintesi delle sue diverse forme: sfruttatore, manipolatore, competitivo, nutritivo, integrativo. Sviluppare consapevolezza delle dinamiche di gestione delle risorse e della distribuzione delle stesse è probabilmente la responsabilità più onorevole della formazione.

 

I sistemi di intelligenza artificiale sono in grado di imparare prospettando nuove forme di vita, cioè entità sensienti di cui non possiamo prevedere, né tanto meno guidare, lo sviluppo. Come questo processo di rapido sviluppo tecnologico, che riguarda la produzione dell’intelligenza collettiva si può legare a etica e valorizzazione della cultura nei processi organizzativi aziendali? In che modo la formazione può supportare la persona affinché possa contribuire all’innovazione senza subirla passivamente?
In una recente ricerca (2015) il Centro Studi Cegos osservava: “We observe a shortening of training duration as well as a very strong demand: people want ready-to-use tools that they can apply directly to solve a given problem and strengthen their skills. It is now their stake to develop their own «capital skills». On their side, companies want to optimize training systems by adopting less expensive and more individualized solutions, including tools to measure efficiency.”
Forse può essere anche il risultato delle nuove percezioni di velocità derivate dall’uso massiccio dei sistemi di comunicazioni multimodale nei new digital workplaces. Nel 2013 Capgemini ha proposto una interessante sintesi di cosa si può intendere per Digital Workplace: “The core of the complex digital ecosystem”. In altri termini, come il punto di sovrapposizione tra 4 macrodimensioni: digital world, digital business, digital company, digital user. Si tratta di dimensione socio-spazio-temporale in cui il lavoratore può essere, positivamente, al contempo fruitore e creatore di nuove forme di rappresentazione identitaria e di innovazione di processo. Questo scenario può però anche generare rischi percettivi e di distorsione interpretativa, non di rado favoriti anche da stili manageriali che favoriscono il conformismo e la rimozione del dissenso.
Come formatori, per evitare collusioni e deresponsabilizzazioni collettive circa le dimensioni etiche e valoriali, dovremmo cercare di riportare la nostra e l’altrui attenzione sui processi di produzione culturale. La cultura non è mai un fatto singolo. E’ il risultato di dinamiche sociali. Rivalutare e valorizzare le relazioni, tra persone e tra ruoli, nelle loro diverse declinazioni interpersonali, di gruppo e in gruppo, di rete e di comunità, è il modo per riportare la dimensione umana al centro dei processi di comunicazione interni alle organizzazioni.

 

Ieri hai detto domani. Oggi i giovani sono il futuro della nostra società, la crisi e la scarsità di investimenti rischiano di contrapporre la dimensione personale della realizzazione del sé a quella della competitività delle imprese e dei territori. In che maniera la formazione potrà far conciliare questi due estremi enfatizzando i valori strategici dell’impresa con la valorizzazione della persona nella sua essenza? In che modo la formazione può costruire una situazione ideale in azienda generando entusiasmo e partecipazione?
Temo che questa apparente contrapposizione tra dimensione personale e dimensione d’impresa sia una semplificazione. Non dimentichiamoci che le imprese sono composte da persone e che quindi si tratta probabilmente di costellazioni di diverse area di potere e di interesse, sia individuale, sia collettivo. La competizione di mercato non esclude la promozione del benessere individuale e della soddisfazione lavorativa. Non tutti gli imprenditori e i manager sono attenti al solo al ritorno individuale, ce ne sono anche di sensibili al tema dell’utilità diffusa. In questo scenario ritengo che la formazione debba evitare il tranello di sentirsi responsabile di conciliare questo o altri dualismi, reali o retoricamente creati. E’ necessario essere sempre consapevoli che l’unico obiettivo davvero perseguibile tramite la formazione è l’aumento della competenza dei soggetti coinvolti (e questo senso non bisogna mai trascurare il tema della triangolazione committente, partecipanti, formatore). Quando tra le competenze dichiaratamente oggetto dell’intervento formativo sono presenti anche quelle relazioni è allora possibili cercare di sviluppare competenze negoziali e di mediazione del conflitto nelle sue diverse forme (interpersonali, di gruppo, generazionali e categoriali, sistemiche).
Le organizzazioni e le loro logiche, esplicite ed implicite di funzionamento, producono il senso del lavoro. Sono quindi certamente immaginabili anche interventi di sviluppo organizzativo (inteso come Organizational Development, ossia quella consolidata tecnica di intervento psicosociale mirata a progettare e indirizzare forme di cambiamento organizzativo, variamente partecipate). In questo caso la formazione potrebbe essere una delle leve, non certo l’unica, per la promozione di cambiamento delle dinamiche sociali intra-organizzative. Oggi come ieri abbiamo bisogno di organizzazioni che favoriscano, realmente e non solo nei dichiarati, senso di appartenenza e di responsabilità, condivisione dello sforzo e piacere nella generazione di benessere. Non posso dunque che continuare a pensare che la trilogia soggettività, pluralità e pacifismo (ben proposta da Enzo Spaltro negli anni 90 del secolo scorso) possa essere ancora oggi centrale nel tentativo di promuovere e sostenere una concezione socialmente costruttiva del lavoro.


 

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