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Federico Polidori

Categories: AIF,Interviste

  


FEDERICO POLIDORI


Training Specialist / Role Playing Game Designer / Life Coach

Quest’anno la riflessione che vorremmo proporre riguarda il nostro lavoro quotidiano e più nello specifico tre parole:
 
La prima parola è sentiero, inteso come percorso quotidiano di sviluppo e conoscenza.

La conoscenza dà il coraggio di fare buone scelte in situazioni incerte e complesse. Ogni individuo nell’arco della propria vita professionale si trova sempre più spesso davanti a scelte che lo portano verso mete, in termini lavorativi, anche molto diverse dalle posizioni ricoperte in quel momento. Come possono le aziende attraverso i loro reparti HR supportare adeguatamente le nostre scelte in una ottica di “incubator” delle attitudini personali, per farci individuare il giusto sentiero? Quali sono gli strumenti che aiutano le persone a trovare i migliori percorsi formativi volti a valorizzare le proprie attitudini e competenze?

Al di là di delle competenze in senso stretto richieste da un particolare ruolo da ritrovarsi in più o meno complesse job descriptions, dal mio punto di vista, il dipanarsi della questione sta a monte, ovvero nella rilevazione di quelle che sono proprio le attitudini personali.

Quindi, non più la corrispondenza del profilo adeguato nella casella giusta ma la scoperta del potenziale individuale più adatto a ricoprire una posizione, che non è detto corrisponda necessariamente a una casella, perché stiamo appunto parlando di un “processo di incubazione” attraverso il quale emergerà una determinata forma a cui dare il giusto spazio, che solo allora potrebbe rivelarsi adatta a entrare nella fantomatica casella di cui sopra.
Oltre ad assessment e diagnostici a vari livelli di approfondimento che ben restituiscono un quadro attitudinale piuttosto fedele della persona, credo che un accompagnamento al ruolo, insieme a un concreto training on the job, costituiscano alcuni dei principali strumenti non solo di crescita professionale ma anche di valorizzazione delle competenze nonché attitudini delle persone, purché sia abbia tempo e volontà di farlo e, se non per tutti, almeno per coloro designati al rango di “Key People”.

 
La seconda chiave è il qui ed ora, la consapevolezza, intesa come conoscenza delle proprie competenze.

All’interno delle organizzazioni aziendali la Qualità Totale ha come uno degli obiettivi principali il maggior profitto, con un focus particolare sull’incremento della efficienza del capitale umano. Questo pone l’accento sul miglioramento delle proprie performance personali e quindi della consapevolezza del sé in relazione alle dinamiche sociali interne anche con l’ausilio delle tecniche di neuroscienze. Oltre a queste, un modo nuovo per migliorare il benessere personale – e aziendale – è l’utilizzo di pratiche antichissime ma nuove per l’occidente. Possono le pratiche di Mindfulness essere un valido aiuto nella consapevolezza dello stato psico-fisico quale fattore fondamentale per il miglioramento della cultura organizzativa aziendale?

Sono assolutamente d’accordo nell’attuazione di pratiche di Mindfulness come sostegno all’efficienza del capitale umano; per esperienza personale e professionale, mi ritrovo e “sono di parte” nell’utilizzo di pratiche antiche ma nuove per l’Occidente, soprattutto nell’operare sullo stato psico-fisico delle persone.
Ci sono concetti, esercizi e modalità appartenenti a culture differenti che, applicate al contesto organizzativo, si rivelano a volte come delle “scoperte sensazionali”; questo mi fa davvero riflettere su quali, oggi, siano mai questi misteriosi parametri organizzativi con cui si cerca di “spingere” sull’incremento dell’efficienza, quando poi l’attenzione sul Capitale Umano, per molte realtà aziendali, appare ancora uno slogan sdoganato e privo di concretezza.

Pratiche di Mindfulness e affini possono essere un valido aiuto nella consapevolezza, a patto che, dal mio punto di vista, “dall’interno e dall’alto” delle macchine organizzative vi siano ambasciatori di una cultura aperta a questo tipo di apprendimenti, volti a fornire un adeguato riconoscimento alle persone in termini di sviluppo, crescita e, perché no, consapevolezza.

 
Infine il cardine su cui si svolge la nostra vita, anche professionale, l’alleanza.

La generazione Z ha dimostrato di voler entrare – a ragion veduta – nelle tematiche di sostenibilità e ambiente, anche se stimolate dalla figura/guru di Greta Tumberg. La Città è già in fiamme ha evidenziato l’urgenza dei temi green ma non solo, ha potuto dimostrare come in modo repentino queste generazioni abbiano superato il proprio individualismo per una causa e azione comune. Allo stesso modo dovranno sostenere il cambiamento con l’entrata nel mondo del lavoro. Quali sono quindi i percorsi formativi che si potranno mettere in pratica per supportare i giovani che entrano nella dimensione organizzativa lavorativa, dove necessariamente si dovranno favorire l’attivazione di atteggiamenti di cooperazione e collaborazione nei rapporti interpersonali e di gruppo, superando le individualità del singolo?

Penso a percorsi digitali che sfruttino al massimo le capacità socio-comunicative dei giovani per creare network incentivando la loro volontà nonché desiderio di identificare nella dimensione “social” un proprio tratto distintivo che possa poi anche prendere concretezza e vestirsi di un tratto più “human” in formule blended con smart workshop disegnati sulle loro necessità, a prescindere dalla tematica di riferimento.
Sono comunque orientato verso interventi “bottom-up”, in quanto non vedo più, oggi, l’ingresso nella dimensione organizzativa come un atto di (solo) apprendimento dall’alto ma anche come un momento conoscitivo di reciproco scambio tra culture, a volte diametralmente opposte, i cui linguaggi comunicativi risentono ancora di una difficile comprensione reciproca.

“Lato giovani”, l’ingresso potrebbe risentire di un approccio molto liquido che non trova una sua identità all’interno della macchina aziendale; “lato organizzazione”, l’accoglienza potrebbe soffrire di una mancanza metodologica sul come implementare azioni di reverse mentoring o affiancamenti on the job che ancora soffrono di gelosie e proprietà professionali legate alla custodia di un know-how che, prima o poi, dovrà trovare il suo accesso alla condivisione.


 

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