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Marco Rinaldi

Categories: AIF,Interviste

  

MARCO RINALDI

Hr Consultant

Che vantaggi può offrire la Gamification a livello esperienziale?

Per poter parlare dei vantaggi o degli svantaggi dobbiamo prima di tutto focalizzarci sull’obiettivo, sul risultato che vogliamo ottenere. Quando un’azienda, un gruppo ristretto o un singolo decide di utilizzare la formazione deve essere cosciente del tema o delle skills che si propone di sviluppare, delle attitudini e peculiarità che contraddistinguono ognuno di noi. Un elemento imprescindibile è senz’altro il desiderio di migliorare; l’apertura verso l’esterno, verso la novità e, ancora più importante, verso sé stessi. Fatta questa premessa possiamo analizzare più da vicino la questione. Il gioco è il primo strumento strutturato che l’essere umano utilizza per comprendere il mondo. È un istinto naturale che consente di potenziare le capacita cognitive e di vivere emozioni che definirei “catartiche”.

Il gioco non è altro che la manifestazione pratica delle nostre capacità attuata in un contesto controllato e sicuro. Negare il bisogno del gioco è come negare a uno spadaccino di affilare la lama o a un pilota di auto da corsa di cambiare le gomme ed esercitarsi sul tracciato. Il gioco può essere utile anche negli assessment, certo, ma sapere di essere valutati mina uno degli aspetti principali del gioco, quello di avere a disposizione un contesto sicuro, dove la fantasia possa portare a soluzioni nuove e incredibili.

La consapevolezza di un possibile fallimento che potrebbe portare lontano da una promozione o da un posto di lavoro desiderato può causare rabbia e frustrazione. Una persona potrebbe sminuire il gioco durante le fasi di valutazione o guardarlo con grande sospetto . Per questo le prove outdoor, le simulazioni, le nuove applicazioni danno il meglio durante la formazione.

Ci troviamo in un’epoca pioneristica sotto questo punto di vista. Il semplice fatto di essere persone su cui l’azienda vuole investire in questo momento di crisi può favorire certamente l’engagement; inoltre il confronto con l’altro, la rielaborazione e la condivisione possono costituire un potente catalizzatore.

Vi è grande necessità di monitoraggio per capire effettivamente quali strumenti sono utili e aiutano le persone e quali invece sono solo divertenti, o peggio una moda.

 

Quali strategie un’azienda oggi può adottare per il Well-Being della persona?

Per quanto ho potuto constatare, almeno in Italia, il fenomeno dello smart working sta lentamente scavandosi un cantuccio all’interno della cultura aziendale, soprattutto nelle realtà strutturate. Se avessi la possibilità di gestire in prima persona un’azienda costruirei in primis una meta-analisi di tutte le realtà appartenenti al settore preso in esame in cui vi sia un’elevata produttività legata ad un’ altrettanto ampia soddisfazione. Probabilmente quello che scoprirei è che le aziende che funzionano meglio sono quelle in cui la flessibilità, o meglio, l’elasticità non solo è presente, ma favorita.

Si lavora per obiettivi: trasparenti, condivisi, realistici. Non è funzionale porsi obiettivi irrealistici e poi prendersela con le persone perché non smaltiscono le ferie arretrate. Ci vuole metodo, organizzazione e umanità. Bisogna snellire le strutture e invogliare i feedback. Lo smart working in molti casi può essere utile e in altri no, anche qui è necessario un monitoraggio, ma è solo un primo passo.

Lo step successivo sarà quello di slegare l’associazione “ più ore di lavoro = maggiore produttività”, esattamente come diversi anni fa abbiamo potuto constatare che uno stile di leadership autoritario non rende un gruppo più produttivo di uno in cui si utilizza uno stile più democratico. Ci vuole intelligenza, strategia, costanza e gentilezza.

 

Quali competenze saranno richieste dalle aziende nel futuro mercato del lavoro?

L’alternanza scuola lavoro può essere utile se la consideriamo come uno sbarco sulla Luna o su un pianeta ancora sconosciuto. Un piccolo passo per uno studente, un grande passo per una generazione. Purtroppo a questa domanda troviamo due risposte, una ufficiale e una ufficiosa. La risposta ufficiale è che le aziende richiedono soft skills, spesso pubblicizzano questa intenzione. La verità ahimè è che vengono maggiormente richieste hard skills e quindi competenze tecniche. Poche aziende e in pochi casi puntano verso soggetti di potenziale, magari da formare o da avviare verso un percorso di crescita strutturato e trasparente.

Le soft skills sono senz’altro apprezzate, se chi le possiede ha già anche le hard skills necessarie per considerarsi Job ready. Tecnici, sviluppatori, ingegneri non faticano a trovare lavoro; la fatica è tutta sulle spalle dei selezionatori che spesso devono ricercare figure che vanno letteralmente a ruba. Il problema di fondo è che le soft skills si sviluppano maggiormente nei primi 20-25 anni di vita quando si struttura la personalità, mentre le conoscenze tecniche possono venire apprese potenzialmente in qualunque momento.

Le scuole superiori o le università con un indirizzo umanistico dovrebbero inserire corsi tecnici, mentre quelle con indirizzo scientifico laboratori e focus group utili allo sviluppo delle soft skills. Occorre inoltre favorire percorsi di orientamento nelle scuole o nelle biblioteche ed organizzare incontri con figure che conoscono maggiormente il mercato del lavoro: selezionatori, head hunters e ricercatori.


 

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