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Alessandro Reati

Categories: AIF,Interviste

  

ALESSANDRO REATI

Formatore e consulente direzionale, Practice Business Leader Cegos

Che vantaggi può offrire la Gamification a livello esperienziale?

I padri della formazione esperienziale sono davvero lontani nel tempo: John Dewey, Paulo Freire, Kurt Hahn, David A. Kolb, Jean Piaget, Carl Rogers hanno tutti evidenziato quanto l’apprendimento possa e debba essere esperienziale e che è sempre esito delle relazioni tra persone, oggetto di apprendimento e ambiente.

Anche nello specifico mondo della formazione aziendale si tratta di un concetto decisamente consolidato, sin dalla metà del secolo scorso. Molti i contributi prodotti nella comunità AIF sin dalla sua nascita nel 1975: basti fare riferimento, tra i tanti, ad Amietta, Castagna, Bruscaglioni, Lipari, Quaglino, Spaltro, Varchetta.

L’esperienzialità è dunque nel DNA della formazione. Anche l’approccio ludico, inteso come l’apprendere attraverso esperienze di gioco è da tempo parte del bagaglio tecnico dei formatori, a partire dall’introduzione dei giochi di ruolo e delle simulazioni operative.

La novità, relativa, non è dunque l’esperienzialità ma lo strumento usato per fare esperienza e la stretta relazione con le modalità di gioco on line. E’ la digital transformation e la conseguente disponibilità di forme di relazione digitali che apre il tema della Gamification.

Interpretiamola per ciò che è: un fenomeno complementare e, parzialmente, incluso nella formazione esperienziale.
L’applicazione del game-design in un ambiente non-game, formalizzata a partire dal 2010 in alcuni interventi pubblici (citatissimo è l’intervento del game-designer americano Jesse Schell alla DICE Conference di Chicago).

Si tratta dunque di una area estesa ben oltre alla formazione: i tentativi di applicazione sono davvero numerosi (dalla selezione alle pratiche di consumo). L’assunto (che richiederebbe una attenta riflessione…) è che la gamification sia in grado di stimolare aspetti sociocomportamentali di base (cooperazione vs competizione), riuscendo ad avviare nuove abitudini comportamentali. In altri termini: un servizio gamificato dovrebbe fornisce obiettivi da raggiungere, livelli in cui progredire, elementi di competizione e/o di condivisione con altri utenti, tramite un rilascio di ricompense.

In particolare, nell’ambito formativo l’intento è anche quello di fornire ai partecipanti delle esperienze di interazione che possano risultare coinvolgenti e confortevoli (ossia affini a quelle già vissute nell’ambiente game, per fruibilità, velocità e logiche di gioco).

La maggior parte delle ricerche sembrano evidenziare l’efficacia dell’approccio (pur richiamando attenzione all’esistenza di fattori individuali ed ambientali che posso non predisporre a questo tipo di modalità).
Ricercatori universitari come Sebastian Deterding e Kavin Slavin e game designer, come Ian Bogost, Jon Radoff and Margaret Robertson, hanno però da tempo evidenziato come ci siano almeno 2 rischi:

– Lasciare che Gamification diventi un termine generico, usato per fare generiche operazioni promozionali
– Sottostimare gli aspetti tecnici e psicologici del metodo, ottenendo alla fine scarsi risultati o addirittura situazioni di rigetto.

Quindi ben vengala gamification formativa con però ben chiara a tutti noi la necessaria domanda progettuale “chi dovremo aiutare ad apprendere cosa?”.

 

Quali strategie un’azienda oggi può adottare per il Well-Being della persona?

Lo Smart Working e il lavoro Agile (per far riferimento alle norme attualmente vigenti in Italia) possono grandemente contribuire all’innovazione ed al miglioramento dell’ambiente di lavoro e, al contempo all’aumento della produttività. La diffusione è purtroppo ancora troppo bassa… Basti consultare il rapporto ILO-ONU Working Anytime Anywhere del 2017: l’Italia era classificata all’ultimo posto. Forse per questo abbiamo dovuto inventarci un termine (Smart Working) che i madre lingua inglese usano ben poco (loro preferiscono ancora telework e flexible working) che potesse evocare la necessità di un cambiamento e lanciare una moda.

Lo smart working non può però basarsi solo sulla diffusione del termine e sulla presenza di nuove norme che disciplinano la relazione lavoratore / azienda. Richiede un approccio consapevole all’organizzazione del lavoro. Per questo la funzione risorse umane deve per prima interpretare il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e deve essere ancor più disponibile a confrontarsi con il management. La tecnologia dovrà poiessere introdotta secondo un approccio user friendly e declinata in riferimento alle reali esigenze operative dei lavoratori.

L’avvio di questa nuova modalità di cooperazione lavorativa deve essere gestito come un progetto di trasformazione organizzativa, prevedendone fasi, momenti specifici e monitoraggi. Per accompagnare concretamente il cambiamento di abitudini dei lavoratori, sia manager, sia professional ed addetti, è comunque necessario comprendere a fondo la normativa vigente e predisporre forme di attuazione coerenti con i processi produttivi aziendali.

E’ quindi importante che le aziende abbiano consapevolezza su alcuni punti chiave:

• Conoscenza dei principali elementi normativi che permettono la realizzazione di un piano di smart working
• Conoscenza degli impatti dello smartworking sulle persone
• Capacità di gestire le leve utili per una gestione efficace del cambiamento organizzativo
• Capacità di sostegno al middle management

Procedere con superficialità potrebbe essere imbarazzante: potremmo confondere lo Smart Working con il Working Smart.

 

Quali competenze saranno richieste dalle aziende nel futuro mercato del lavoro?

L’Italia ha dovuto confrontarsi con delle dinamiche socio-economiche che per quasi un decennio hanno caratterizzato le dinamiche sociali: invecchiamento complessivo della popolazione, riduzione dei posti di lavoro, perdita del potere di acquisto, alta permanenza dei lavoratori anziani dei contesti produttivi, emigrazione giovanile.
Un aumento dei Millennials nelle aziende sta finalmente favorendo dei percorsi di innovazione organizzativa, spesso in sinergia con la digital trasformation.

Questa concomitanza sta riportando le aziende ad essere ciò che in passato sono sempre state: un contesto organizzativo multigenerazionale in cui è necessario predisporre processi di integrazione valoriale ed operativa. Oggi però è diverso l’ambiente tecnologico e, in parte, le aspettative dei lavoratori. Per questo una delle più grandi sfide cui sono chiamate a rispondere oggi le organizzazioni è la gestione delle differenti generazioni in azienda con un’ottica strategica di medio/lungo periodo.

Il grande dibattito sulle competenze del futuro dovrebbe essere ricondotto a due dimensioni:
– Le competenze comunicative di base (sia presenziali, sia digitali)
– Le competenze professionali specifiche

Entrambe le dimensioni richiedono la consapevolezza che il futuro è sempre una scommessa, il tentativo di trasformare il caso in progetto. La risposta alla domanda “quali competenze per il futuro?” può essere affrontata solo risolto l’interrogativo “quale futuro desideriamo?”.

Anche per questo, non sono solo le nuove generazioni che si affacciano al mercato del lavoro che devono adattarsi alle vita aziendale. Sono anche le aziende stesse che devono adattare la propria organizzazione alle caratteristiche e aspirazioni dei Millennials, in parte nuove e differenti rispetto alle precedenti generazioni. Un’azienda in grado di intercettare le loro caratteristiche professionali e le loro aspettative circa il mondo lavorativo, è un’azienda che avrà un vantaggio strategico rispetto alle altre. Con molta probabilità questa vision sulla tematica avrà un impatto positivo su diverse fasi della vita aziendale: selezione dei migliori talenti sul mercato, crescita e sviluppo degli stessi, aumento del committment nei confronti dell’organizzazione e creazione di un buon clima aziendale anche in ottica di diversity.

Secondo le Survey (nazionali ed internazionali) Cegos, sarà necessario operare su 5 dimensioni:
– Accesso alle informazioni aziendali (diffusione vs restrizione)
– Tecnologia (in particolare ICT)
– Forme di relazioni interpersonali (in presenza ed in remoto)
– Stile di gestione delle persone (HR & People Management)
– Processi Produttivi (Smart Working e Lavoro Agile)


 

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