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Franco Fantuzzi

Categories: AIF,Interviste

  

FRANCO FANTUZZI

Associated Management Consultant Cegos Italia

Un futuro aperto al lavoro? Concretezza creativa e progettualità umana, scientificamente pragmatica.
A good question, come aprirsi alle opportunità del lavoro che il presente futuro prossimo offrirà

Un futuro aperto al lavoro? Concretezza creativa e progettualità umana, scientificamente pragmatica.
A good question, come aprirsi alle opportunità del lavoro che il presente futuro prossimo offrirà?

Per rispondere a questa impegnativa domanda invece di esprimere opinioni personali, magari corrette, ma che come sempre rappresentano solo i risultati di osservazioni paradigmatiche soggettive, preferirò commentare dati statisticamente oggettivi, riferiti ad una visione globale della trasformazione digitale ed europea della formazione manageriale e commentarle con esperienze personali. Nel corso del 2018, ho tenuto oltre 90 giornate d’aula con popolazioni di ca. 12-20 partecipanti tra manager, quadri, team leader, dipendenti e qualche idea personale me la sono fatta.

Quali saranno le competenze emergenti nel mondo delle aziende maggiormente avanzate che oggi stanno adottando le loro strategie di data-driven?

In questo caso il punto di riferimento sono due ricerche, commissionate da Google a Boston Consulting Group. La prima ha mostrato che solo il 2% dei brand analizzati adotta strategie di data-driven marketing avanzate e ciò significa che c’è un 98% di imprese che si dovranno in qualche modo organizzare perché quel 2% di imprese, già oggi, traggono tangibili risultati di incremento dei loro ricavi del 20% e, soprattutto, un risparmio sui costi del 30%.

La seconda, appena pubblicata, ha analizzato 6 brand ed ha fatto emergere, attraverso 16 test, 200 sondaggi e più di 40 interviste, come le imprese potranno ottenere i risultati migliori.

Lo studio ha dimostrato che, dopo solo 6 settimane, l’uso di tecnologie data-driven porta ad un aumento fino al 50% delle transazioni online. Un risultato sorprendente che si riflette sulla crescita complessiva: fino al 33% di aumento sul ritorno sulla spesa pubblicitaria e fino al 44% di risparmio sul cost per action.

Però, dalla ricerca BCG è emerso anche il valore delle professionalità e delle componenti umane indispensabili per guidare la potenza dei big data: le imprese hanno bisogno di persone che sappiano decidere le nuove strategie di marketing: quando le strategie data – driven vengono perfezionate dalle persone il rendimento aumenta di un ulteriore 15%.

Lo studio condotto da BCG indica poi che, chi si occupa di marketing, deve assicurarsi anche che il valore aggiunto sia percepito a tutti i livelli dell’organizzazione, testando, imparando e dimostrando l’impatto che le nuove strategie hanno nella supply-chain dell’impresa. In questi giorni è apparso alla ribalta il caso dei trasportatori di Amazon, con lo sciopero dei corrieri e presìdi davanti alla sede di Milano. Probabilmente chi ha redatto e chi ha sottoscritto il Codice di Condotta dei Fornitori, dietro al quale Amazon si difende, non ha forse tenuto conto dell’impatto strategico data-driven dell’impresa.

E se, nel lungo termine, il successo delle aziende dipenderà dall’abbattimento delle piramidi organizzative interne, dalla capacità di apprendimento dei team e dalla creazione di partnership strategiche, atteggiamenti e comportamenti interfunzionali, collaborativi e responsabili, diventano i driver indispensabili per una crescita professionale competitiva e distintiva perché, indipendentemente dall’industria o dall’età, il successo non è mai fuori portata, ma serve agire ora.

Venendo alle modalità formative, e prendendo in esame i trend emergenti, le attività di gamification sembrano assumere sempre più appeal. Senz’altro gli aspetti ludici aiutano l’apprendimento, ma omnia in mensura et numero et pondere, è bene comprendere come quando e quanto gamificare le attività formative.

Gamification: è divertente. Gli adulti apprendono essenzialmente secondo tre modalità , la coercizione, l’ auto motivazione e con il gioco. Per apprendere, intendo voler dire, la capacità di uscire dalla propria area di comfort della conoscenza già appresa, uscire dalle proprie credenze, aprire la propria mente a nuovi orizzonti, a nuove opportunità.

Cerco di spiegarmi meglio:
Coercizione. Ovvero le persone si sentono in qualche modo costrette ad apprendere nuove modalità di approccio alla loro realtà operativa quotidiana perché indotti da cambiamenti verso i quali non possono esercitare nessun controllo, situazione classica delle organizzazioni piramidali, nelle quali il cambiamento comportamentale è imposto dal vertice. Se volete un esempio, basta pensare all’obbligo della fatturazione elettronica. Dopo il d day, o cambi comportamento o non fatturi più, con le conseguenze negative del caso. Sei out.

Auto-motivazione. E la modalità applicata e preferita dalle personalità che hanno una loro visione da concretizzare, un loro proprio obiettivo da raggiungere, oppure possiedono già un piano di sviluppo personale pianificato. Queste personalità discernono, scelgono autonomamente i contenuti e le modalità di apprendimento utili alle loro precise esigenze, investendo sia in termini di impegno personale, sia in termini materiali ed economici, perché intravvedono l’utilità degli sforzi necessari per perseguire i loro scopi. E’ questo il caso del libero professionista o , comunque, di personalità auto dirette.

Il gioco. In questo contesto si possono includere tutte le modalità di gamification. Col gioco si riaprono le motivazioni infantili dell’esser aperti a nuove conoscenze per ottenere, vincere un premio o una qualsiasi gratificazione. Una gamification sfidante, come tanti altri giochi di gruppo. Il gioco è la modalità ideale da innestare nelle organizzazioni che tendono all’appiattimento piramidale e desiderano responsabilizzare i livelli organizzativi più bassi con nuove competenze, responsabilità ed obiettivi caratteristici di livelli a loro superiori.

Nella ricerca europea The Cegos Observatory Barometer 2018 sono sati intervistati 2.227 Dipendenti , 57% Manager, 43% Non-manager e 316 HR people, 30%, HR directors ,36%, Training 34% Manager/Supervisor e non ha proposto la gamification come opzione di scelta, ma esprime chiaramente la visione in merito ai giochi del campione intervistato.

Alla domanda: a tuo parere tra i seguenti quali sono i 3 fattori più importanti per stimolare la partecipazione ad un corso e favorire il coinvolgimento? L’aspetto ludico interattivo è all’ultimo posto ed e stato citato importante solo dal 31% dall’HR people, e dal 35% dei dipendenti. Si può affermare che l’aspetto ludico della formazione sia solo relativamente importante e la domanda che mi sono posto sono due: Perché gli HR people ci credono solo fino ad un certo punto? A cosa è relativo l’aspetto ludico?

Personalmente ho avuto esperienze molto positive trasformando concetti anche molto complessi come, ad esempio, l’organizzazione di un focus group finalizzato alla soluzione di un problema operativo, coinvolgendo le aule in uno sfidante gioco basato sulla raccolta di palloncini colorati.

La forza del gioco sta sempre nella forza della metafora che rappresenta la quotidianità operativa, più è forte la metafora più il gioco diventa efficace.

La ricerca Cegos ha infatti fatto emergere che è la trasposizione della formazione in situazioni reali di lavoro tra i tre fattori più importanti per stimolare la partecipazione ad un corso di formazione per il 52% dei dipendenti e per il 57% degli HR people. Quindi, da formatori, gamifichiamo pure, ma prima capiamo cosa e come possiamo gamificare per erogare quell’efficacia che rende utile ed applicabile il nostro lavoro. Se non facilitiamo l’apprendimento concreto di sicuro non creeremo né engagement, né conversioni verso i tre aspetti che tratterò dopo Well-Being e lo Smart Working.

La nostra sede è ad Assago, 30 minuti in metro, io arrivo da Bologna e i miei colleghi vivono a Milano. Soluzione ci riuniamo al Copernico, due passi dalla Stazione Centrale. Connessione wifi, caffè. Intimità operativa e la riunione è fatta, ci si arriva a piedi o in bicicletta.

E’ solo un esempio personale, ma condiviso dal 49% dei manager HR che stima che agilità e capacità di adattamento saranno le competenze chiave per il futuro anche solo il 24% ritiene che il ”remote management/collaboration“ sia tra le competenze comportamentali che i dipendenti della loro azienda dovrebbero maggiormente possedere. Sono ritenute più importanti, ad esempio l’agilità e la capacità di adattarsi, (49%) una learning culture diffusa nel microambiente imprenditoriale (45%) una efficace capacità di saper organizzare la propria attività (41%) e una buona comunicazione digitale (35%) unita ad una buono spirito d’iniziativa (31%) Con queste competenze quindi si potrebbe pensare che lo smart working potrebbe avere l’impatto e l’efficacia sperata, ma con un pizzico di creatività e propensione all’innovazione (30%). Lo smart working sembra così essere una meta ideale per chi veramente sa agire per obiettivi SMART e trova nella sua propria autorealizzazione, il proprio well being!

Quali competenze saranno richieste dalle aziende nel futuro mercato del lavoro?

Si è sempre fatto così. E poi si chiede il change management!
Ora sospendete i giudizi e osservate con gli occhi degli scienziati. Faccio un esempio che abbiamo potuto osservare tutti. I sondaggi si son sempre fatti nello stesso modo e alla fine Trump negli USA e Salvini in Italia li hanno sconfessati tutti. Il change management dipende da chi cambia le regole del gioco, non dai giocatori. E’ una lezione che molti manager dovrebbero apprendere, prima che sia troppo tardi.

Osservando la ricerca Cegos, l’89% di impiegati e dipendenti europei ritiene che l’evoluzione tecnologica possa modificare il contenuto e l’essenza della propria professione, mentre le competenze chiave per il futuro secondo gli specialisti HR europei sono l’agilità e capacità di adattarsi al cambiamento (49%), sviluppo di una learning culture (45%), organizzazione efficace delle attività (41%)

In conclusione, se dovessi mandare un curriculum ad una impresa sottolineerei tre competenze trasversali fondamentali per ricoprire qualsiasi ruolo. : interfunzionalità – collaborazione – responsabilità
La prima perché in mercati dove la domanda cambia con velocità esponenziali, le imprese devono rispondere con la stessa velocità di adattamento della loro offerta. Più che di change management si può iniziare a parlare di changing marketing, senza dimenticare che ogni risorsa umana sta facendo marketing, a prescindere dal ruolo che ricopre oggi, anche perché domani, ne ricoprirà probabilmente un altro.

La seconda, perché da soli non si va mai troppo lontano, pensate a Cristoforo Colombo, se non avesse avuto la capacità di collaborare e negoziare con Isabella, saremmo ancora alla ricerca delle indie al di la dell’Atlantico. Oggi la forza sta nel team, magari con persone che risiedono in angoli diversi del pianeta ma che hanno obiettivi condivisi, specifici, misurabili, ambiziosi, ben pianificati e programmati.

La terza perché senza responsabilità non esiste né delegante, né delegato. E la responsabilità parte da un concetto basilare da condividere trasversalmente in tutta l’impresa: ognuno vive vendendo qualche cosa. Nella catena del valore dell’impresa, ogni risorsa umana è contemporaneamente cliente esigente e fornitore efficiente e questa consapevolezza genera responsabilità, nel saper esigere e nel saper erogare il valore aggiunto soggettivo che contribuisce alla creazione del valore oggettivo erogato dall’impresa al cliente finale.

E’ forse può esser questo il sogno della felicità collettiva di Adriano Olivetti, posposta nel terzo millennio che stiamo vivendo?

Per chiudere vi offro una metafora, una storia sintetizzata, che può stravolgere il senso comune del concetto di marketing, ma che può rappresentare bene la sintesi delle mie risposte.
I sacri testi del marketing indicano la sua data di nascita in coincidenza con la nascita del fordismo e la segmentazione del lavoro secondo il metodo di Taylor, tra la seconda metà del 1800 e l’inizio del 1900.
Ma ne siamo proprio sicuri? Forse dal punto di vista della organizzazione del lavoro sì, ma dal punto di vista della creazione del valore, secondo la mia modesta opinione il marketing nacque molto prima.

Tra il 1475 ed il 1564, circa. Pensate alla basilica di San Pietro a Roma, alla Cappella Sistina e a papa Sisto IV della Rovere che riceve le fatture, per fortuna non ancora elettroniche, da Michelangelo e dalle imprese di costruzione che stavano erigendo il Cupolone!

Come poteva fare per rispettare gli impegni presi con le casse vaticane vuote? Con un fantastico marketing mix, ovviamente! Con un’ottima segmentazione del suo target è riuscito a vendere la promessa del paradiso ai più abbienti e del purgatorio ai meno abbienti. Con un prodotto dal costo industriale irrisorio, una sorta di coupon, introducendo le indulgenze nel suo mercato ecclesiastico di riferimento, con una efficiente supply chain di diocesi e parrocchie e con una promozione firmata da un art director di tutto rispetto, Michelangelo Buonarroti, e creativi di prim’ordine come Botticelli, Perugino, Pinturicchio, Ghirlandaio, Signorelli, e altri che rappresentarono la teologia visiva che illustra bene le pene degli inferi in cui sarebbero caduti coloro che non avessero, per così dire, acquistato i coupon della salvezza eterna. E se questo non è marketing dell’intangibile, come lo definireste voi? Qualcuno, poi, non prese molto bene questa strategia di marketing un po’ troppo intangibile e finì, con Enrico VIII, in un bello scisma anglicano: We make our business marketing, affermano, senza pudori, oggi, gli anglosassoni.

E Amazon, Google, Facebook e il 2% delle imprese, oggi data – driven, guarda caso, sono di origine anglosassone: concreti, creativi, progettuali, umanamente, scientificamente pragmatici.


 

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