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Stefano Pollini

Categories: AIF,Interviste

  


STEFANO POLLINI


Laureato in filosofia a Bologna, lavoro a Trento per Con.Solida/centro risorse a supporto delle attività formative per disoccupati promosse dall’Agenzia del Lavoro

Quest’anno la riflessione che vorremmo proporre riguarda il nostro lavoro quotidiano e più nello specifico tre parole:
 
La prima parola è sentiero, inteso come percorso quotidiano di sviluppo e conoscenza.

“Alla prima domanda è molto difficile, forse impossibile rispondere. Qual è il sentiero giusto? A questo proposito mi viene in mente quello che diceva Steve Jobs nel famoso discorso alla Stanford University e cioè che il corso più importante della sua vita fu un corso di calligrafia che gli insegnò tutte quelle conoscenze sui caratteri e la scrittura che utilizzò 10 anni dopo quando creò il primo MAC. Quando frequentava quel corso, però, non aveva la più pallida idea a cosa gli sarebbe potuto servire quel corso. Apparentemente frequentare un corso di bella calligrafia negli anni 70 sembrava la cosa più inutile, poi si è dimostrato utilissimo nel campo dell’information technology. Chi poteva prevederlo?

Tutto ciò per dire che in un mondo in continuo cambiamento è difficile prevedere ora cosa sarà più utile domani. Probabilmente quello che serve oggi, domani sarà vecchio e quindi bisogna stare attenti a limitarsi ad inseguire le richieste del mercato. Inoltre come trovare i migliori percorsi formativi volti a valorizzare le proprie attitudini e competenze? Difficile rispondere perché ognuno di noi ha più competenze e attitudini. Ci sono gli specialisti, ma ci sono anche i multipotenziali che sviluppano competenze molto diverse e creano qualcosa di nuovo perché integrano competenze molto diverse fra loro. E quindi per alcuni l’ideale è trovare percorsi formativi coerenti che li specializzano in qualche cosa, per altri invece l’ideale è frequentare corsi molto diversi fra loro apparentemente incoerenti. E’ una risposta che dipende da variabili troppo diverse: dalle singole persone, dal contesto lavorativo e organizzativo, dagli obiettivi che si pongono.

 
Infine il cardine su cui si svolge la nostra vita, anche professionale, l’alleanza.

La seconda e terza domanda le metto insieme perché riflettono un modo di considerare la formazione aziendale molto simile e che non mi piace e provo a metterla in discussione.

In primo luogo la citazione relativa alla qualità totale mi fa venire in mente un editoriale di Ugo Morelli pubblicato su “diritto bancario”: http://www.dirittobancario.it/editoriali/ugo-morelli/banca-le-derive-di-una-parola.

“Se consideriamo il linguaggio con cui il management descrive il proprio operato – scrive Morelli – emergono con evidenza diversi casi in cui il “margine” e “l’incertezza” sono aboliti. Un esempio illuminante è l’espressione qualità totale. La conseguenza più importante è che quando un fenomeno è “totale” assume una ben strana caratteristica: non è più perfettibile. È basato perciò sulla negazione dell’incertezza e non sulla disposizione ad apprendere da incertezza ed errori. È portatore di assenza di spazi di miglioramento e innovazione. Assume connotazioni totalitarie che non si concedono l’esercizio del dubbio”. In questo caso non c’è margine e non c’è spazio per la responsabilità. Quindi quando si parla di “qualità totale” è necessaria prestare molta attenzione a questi aspetti e come le persone possono dare il loro contributo andando oltre alla mera esecuzione di una procedura.

Si parla tanto dell’importanza che le persone e dell’importanza si assumano le proprie responsabilità; ma la responsabilità è sempre collegata all’incertezza del risultato, altrimenti l’azione sarebbe il semplice risultato dell’esito di una procedura. Nelle nostre organizzazioni come avvengono le scelte? Sono l’esito di una procedura? Quanto spazio c’è per la responsabilità? E come gestiamo e diamo valore all’incertezza?

Detto questo quando si parla di mindfulness si pone l’’accento sul miglioramento delle proprie performance personali, si pone l’accento sull’individuo, ma questo mi pare un punto di vista sbagliato per migliorare una organizzazione che è non è la semplice somma di individui ma qualcosa di radicalmente diverso. I limiti di questa formazione sono evidenti: il solo focus sono le singole persone, mentre l’organizzazione, i processi e la qualità del sistema rischiano di rimanere inalterate.

Il giorno dopo il «grande gioco», le persone tornano in azienda e ritrovano la stessa organizzazione e la stessa cultura di prima: l’eventuale miglioramento è lasciato alla buona volontà delle persone in un contesto dove spesso tutto, purtroppo, è pensato per la conservazione.
Il focus esclusivo sulla persona spesso è un tentativo genuino di rispondere ai crescenti problemi organizzativi in assenza di alternative; però sappiamo che è il paradigma ad essere andato in crisi e, paradossalmente, invece di intentare azioni correttive stiamo calcando ancor di più la mano sul cambiare le persone perché compensino individualmente le distorsioni di un paradigma inadatto.

Pier Mario Biava nel capitolo Il logos e l’origine della vita, ne “Il senso ritrovato”, scrive che “una cellula epatica, se decontestualizzata e posta per esempio in vitro, non sarebbe in grado di «capire» il «significato» di tossico, in quanto le mancherebbero i collegamenti con la rete da cui derivano tutte le informazioni utili per la significazione”.

L’uomo è certamente più complesso di un cellula. Questo significa che interpretazioni, connessioni, valori e competenze non possono essere trasferiti.
Per essere ancora più espliciti – scriveva Zanotti in un post (https://ettardi.blogspot.com/2015/03/la-cellula-e-la-persona.html ) – quando una persona torna nel gruppo di lavoro, dopo essere stato “processato”, ad esempio, da un intervento di formazione, non riporta nell’organizzazione quello che ha “imparato” in quel gruppo. Torna indietro certamente un po’ diverso, ma questo significa solo che deve ricominciare a ricostruire interpretazioni, valori e competenze nel suo contesto lavorativo. Con sua grande delusione, perché si attendeva che il mondo idilliaco costituito dal contesto formativo, si sarebbe automaticamente trasferito nel suo contesto naturale di lavoro.

In conclusione, non è possibile lavorare su temi delicati come la motivazione, il coinvolgimento, la fiducia, il rispetto, la responsabilità e il senso di appartenenza, lavorando solo sulle singole persone senza ripensare, parallelamente, anche i processi organizzativi e decisionali. Non ha senso lavorare sui singoli, sui giovani, sui dipendenti, senza prima lavorare sui responsabili, sui manager, CEO, imprenditori.
Che senso ha progettare percorsi formativi per favorire l’attivazione di atteggiamenti di cooperazione e collaborazione nei rapporti interpersonali e di gruppo, superando le individualità del singolo se la dirigenza e i vertici non sono coinvolti? Non ha senso pensare qualcosa per i giovani, staccato dal contesto aziendale dove i giovani andranno ad operare.

La cooperazione e la collaborazione deve emergere da scelte coerenti da parti di tutto il management; altrimenti si rischia di sostenere che la formazione sia importante, ma solo a parole”.


 

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