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Valeria Quarto

Categories: AIF,Interviste

  


VALERIA QUARTO


Nasce a Bari, classe ’91. Si laurea in Progettazione delle Politiche di Inclusione Sociale presso l’Università Aldo Moro di Bari e per il suo futuro prossimo ha l’ambizione di diventare assistente sociale specialista, con la passione per la ricerca sociale. Le piace scrivere e quindi, inevitabilmente, le piace leggere.

Quest’anno la riflessione che vorremmo proporre riguarda il nostro lavoro quotidiano e più nello specifico tre parole:
 
La prima parola è sentiero, inteso come percorso quotidiano di sviluppo e conoscenza. La seconda chiave è il qui ed ora, la consapevolezza, intesa come conoscenza delle proprie competenze.Infine il cardine su cui si svolge la nostra vita, anche professionale, l’alleanza.

Comincio subito dalla risposta: l’unico modo per imparare a lavorare in gruppo è lavorare in gruppo.
Ho trascorso gli anni 2017-2019 cimentandomi in lavori di gruppo grazie ai corsi offerti dalla mia Università Aldo Moro di Bari. Scrivo questo sotto forma di auto-etnografia, perché se ho appreso delle informazioni circa il lavoro di gruppo, è perché ne sono stata io stessa oggetto e protagonista.
Il mio docente di Metodi e tecniche di ricerca sociale non ha mai nascosto alla classe che la sua valutazione sarebbe stata effettuata anche sulla base del modo in cui avremmo lavorato in gruppo, che per il mio mestiere (assistente sociale specialistica, prossima all’abilitazione) è quantomeno essenziale.

Durante un qualsiasi corso di formazione, classe, studio, ma anche ufficio, azienda, mettere insieme individui e creare dei team (che siano membri associati a caso o per professionalità e competenza, dipende dal contesto scolastico/lavorativo di cui si tratta), per il raggiungimento di uno scopo comune, che sia la realizzazione di un progetto, la preparazione di un esame o la vendita di un prodotto, “costringe” le persone ad un gioco di equilibrio, tra se stessi e la difesa delle proprie idee, quando si ritiene che siano le migliori – per la riuscita del gruppo, e non per orgoglio personale – e la rinuncia a se stessi, proprio per un bene più grande.

Se si ha successo, è merito di tutti; se si fallisce, è responsabilità di tutti.
Nel gruppo si favorisce anche l’empatia, perché sostenersi e supportarsi l’un l’altro diventa sempre ottimale per la produttività.
Lavorare in gruppo significa rinunciare ad avere il controllo su tutto. E’ una valutazione in itinere del sentiero che si sta tracciando, da correggere di volta in volta, apprendendo che ognuno ha bisogno dell’altro e che il tutto vale più della somma delle proprie parti, per citare il filosofo. Consapevolezza.

Sicuramente, però, serve una figura terza, esterna, che guidi e monitori i gruppi e, appunto, ne sia formatore, prestando accorgimenti quando lo ritiene opportuno, dettando le attività da svolgere, seppure intervenendo il meno possibile.
Nessuna collega del mio gruppo si dimenticherà mai il commento del nostro professore, non a caso sociologo – quindi sapeva cosa stava facendo -, quando si manifestavano apertamente diatribe su chi avesse ragione e di chi “fosse la colpa”.
Ci disse: Siete tutte tendenti all’egocentrismo.

Questa affermazione (vera), ci portò a riequilibrarci e ad ascoltare l’altro – ecco un utile pungolo esterno, arrivato al momento giusto.
Quindi, per concludere, suggerirei il lavoro di gruppo, col fine di creare alleanze efficaci e leali, spingendo ad uno spirito di appartenenza, per la costruzione della “nostra stessa tribù”, come la chiamerebbe Di Gennaro; e una figura super partes che diriga i lavori ed intervenga solo se necessario, guidando il team.
Perché le connessioni sono una realtà innegabile, dunque bisogna imparare a starci e a crescerci.


 

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