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Federico Polidori

Categories: AIF,Interviste

FEDERICO POLIDORI

Polidori Federico
Training Specialist presso A.D. Global Solution

L’innovazione tecnologica sta trasformando le relazioni umane, e il cambiamento è stato percepito anche all’interno delle organizzazioni e delle aziende con cui collaboriamo. La formazione deve innovare metodi, strumenti e spazi al fine di valorizzare la persona in un contesto sempre più digitalizzato. Quali sono i principali cambiamenti da realizzare? Il cambiamento porta con sé elementi positivi? e quali?
Penso che un primo cambiamento da realizzare sia quello di adattare “format e concepts” didattici a una versione digitalizzata; così come esistono modelli, metodi, teorie di riferimento a cui attingere per la progettazione di interventi formativi di ogni tipo, occorre, secondo me, capire come “fare il salto” da un’applicazione tradizionale a una di taglio più innovativo rispetto alla continua evoluzione di prodotti e forme digitali. Decenni or sono, ad esempio, parlare di “giochi” per la formazione sembrava qualcosa di astruso, incomprensibile, fuori luogo, e un’idea come l’utilizzo di una metafora sportiva o teatrale per lo sviluppo delle famigerate “soft skills” sarebbe stata a dir poco “unconventional”! Eppure, oggi, gli approcci ludico esperienziali non solo sono piuttosto conosciuti ma, in alcuni contesti organizzativi “più avanzati”, sono già superati, fatti, sperimentati e digeriti. Quindi, che si ha da offrire di diverso, di nuovo, di innovativo!? La ricerca è avanzata e, grazie al supporto della tecnologia, dalla formazione elearning mediante LMS siamo arrivati ai social networks, alla gamification, ai wearable devices e a ogni tipo di soluzione mobile in continua e costante evoluzione; d’accordo, ma siamo certi che di fronte a una metodologia d’apprendimento tecnologicamente avanzata corrisponda una medesima valorizzazione della Persona? A volte, ho come la sensazione che, in alcuni contesti, si scambi il valore della macchina per il contributo che lo strumento digitale possa effettivamente dare a chi ne è un semplice utente; la formazione digitalizzata è un contenitore che fornisce alla Persona la possibilità di apprendere in una maniera interattiva differente rispetto alla presenza fisica e frontale di un docente, rendendo il “partecipante” autonomo nella gestione del proprio apprendere, ma fino a che punto? E’ una domanda che mi pongo senza giudizio sotteso, anzi, sono ben propenso e affascinato dall’uso di una formazione “a passo coi tempi”; me lo chiedo perché in aula, come la maggioranza dei miei colleghi di ruolo, incontro e ho conosciuto Persone cariche di vissuti emotivi, storie di vita da raccontare, conflitti interpersonali, dinamiche di gruppo intense che fatico a commutare pienamente “in formato digitale”, e forse la “zona cuscinetto” della formazione blended rappresenta uno spazio in cui ancora si riesce a vivere il gusto di un apprendimento profondo, miscelato da contributi dal sapore digitale. Certo, data poi la varietà di contesti, bisogni, metodi che gravitano dentro e fuori il contenitore “formazione”, le soluzioni possono essere centinaia; nella mia personale esperienza, però, vivo spesso una sorta di profonda spaccatura tra interventi “ad alta risoluzione digitale” e seminari intensamente esperienziali che ruotano, tra i tanti, intorno a temi quali intelligenza emotiva, mindfulness, comunicazione ecologica, progettati nell’ottica di stimolare una sensibilità relazionale a cavallo tra realtà aziendale e vita personale.

Quindi, secondo me, uno dei principali cambiamenti da realizzare è puntare e investire sì sulla digitalizzazione di metodi e processi di apprendimento, per dovere o piacere che sia, dando l’opportunità ai discenti di vedere, sperimentare, adattarsi a più punti di vista e metodologie, in modo da rendere la formazione un contenitore sempre più variegato e multiforme sulla base delle esigenze professionali che il contesto organizzativo manifesta. Tutto questo da finalizzarsi alla valorizzazione della Persona, per cui il mezzo digitale resta uno strumento di espressione, un modo di coinvolgere e far interagire, senza illudersi di poter soddisfare a pieno una complessità umana che, all’occorrenza, può abilmente celarsi dietro un occhio digitale, rispetto a un mettersi in discussione davanti ai e tra colleghi, raccontare di sé, accendere dibattiti dal vivo. Dal mio punto di vista, il cambiamento o l’apporto tecnologico nel contesto formativo porta sicuramente con sé elementi positivi come la stimolazione della curiosità, l’engagement, la riduzione di tempi, spazi e distanze, sistemi di misurazione più articolati, lo sviluppo della capacità cognitiva e di problem solving e, soprattutto, l’apertura a nuovi scenari di metodi in continua elaborazione. Da ricordare che al centro di qualsiasi processo di formazione vi è la Persona; tutto ciò che ne possa facilitare lo sviluppo di capacità e competenze, in chiave digitale o virtuale che sia, per me è da considerarsi fonte di costante arricchimento, purché questo non comporti una progressiva sostituzione della Persona con “la Macchina”, dove l’attenzione non è più sulle Risorse bensì sulla ricerca del mezzo migliore per saperle valorizzare.

 

I sistemi di intelligenza artificiale sono in grado di imparare prospettando nuove forme di vita, cioè entità sensienti di cui non possiamo prevedere, né tanto meno guidare, lo sviluppo. Come questo processo di rapido sviluppo tecnologico, che riguarda la produzione dell’intelligenza collettiva si può legare a etica e valorizzazione della cultura nei processi organizzativi aziendali? In che modo la formazione può supportare la persona affinché possa contribuire all’innovazione senza subirla passivamente?
La cultura aziendale assomma in sé know how, abitudini, simboli e rituali che alimentano un’intelligenza collettiva che scaturisce dai comportamenti e dai processi agiti dagli individui, andando a costituire un modus operandi caratteristico di un dato contesto. All’interno di tale ambiente, l’apporto tecnologico stesso permea tratti culturali specifici che spesso, grazie al contributo innovativo dato dalla tecnologia, arricchiscono l’espressione culturale, sia in termini di contenuti digitali sia come canali di comunicazione più immediati. Quando lo sviluppo tecnologico tende “a impossessarsi” del patrimonio culturale, quasi ingabbiandolo in forme prestabilite e standard di oggettivazione, come l’univocità di un prodotto o la ristrutturazione di vecchi codici comunicativi che cambiano di sostanza ma non di contenuto, il know how aziendale perde parte della sua identità, non tanto in termini di flessibilità di processi o miglioramento del proprio CRM, bensì legata allo sviluppo cognitivo degli individui che operano a monte dell’impianto tecnologico. I sistemi di intelligenza artificiale, così come gli scenari prospettati dalla realtà virtuale, nascono già da un’evoluzione dell’intelligenza collettiva che, prestandosi a creare un riflesso migliorativo della propria intuizione, permette alle persone di elaborare sistemi di apprendimento multisensoriali, provvisti di un elevato grado di autonomia o di interattività nel caso degli ambienti virtuali. Si assiste, quindi, a un passaggio proprio culturale dalla realizzazione di un output, segnato da un inizio e da un termine più o meno fisiologico, alla perpetuazione di un ciclo di vita che, una volta ideato, possa proseguire autonomamente, in un tempo indefinito. In un simile processo di sviluppo tecnologico, la produzione dell’intelligenza collettiva si può legare ai concetti di etica e di valorizzazione della cultura attraverso una gestione della conoscenza che monitori non solo l’andamento dei risultati ma anche il flusso di quei processi informativi e di scambio che ne regolano a monte “le regole” di trasmissione.

Come nelle tradizioni celtiche il passaggio del Sapere era contraddistinto da una formulazione orale della memoria e rivestito da una specifica classe di “addetti ai lavori” che ne preservavano anche il valore e la sacralità, allo stesso modo l’intelligenza collettiva funge da recipiente all’interno del quale sarebbe utile eleggere e “delegare” esperti del settore alla creazione di pratiche d’apprendimento “normate” da determinati vincoli “sacri” che ne assicurino la trasmissibilità senza tradire il codice di origine, esattamente come avviene nei laboratori di ricerca adibiti allo studio sulla configurazione del DNA. La formazione può supportare la Persona all’interno di tale scenario, sebbene sinteticamente semplificato, tramite la creazione di laboratori o percorsi mirati allo sviluppo di un’intelligenza creativamente collettiva che, da un lato, permettano alle persone di condividere il loro know how interfunzionale e, dall’altro, spingano i partecipanti non solo a generare progetti, idee o apprendimento ma anche sistemi evolutivi che, seppur sfruttando l’apporto tecnologico, abbiano una loro autonomia, “dipendente” comunque da una mente creatrice che ne sappia sì gestire il pensiero, “la scheda madre”, non l’evoluzione, il cui cambiamento è insito nella parola stessa. Dal mio punto di vista, l’innovazione si può definire tale se si ha modo di vedere i risultati di ciò che si origina per migliorarli di continuo, dove tale continuità è la strada senza confini su cui viaggia l’intelligenza collettiva per mantenere il proprio ruolo attivo e decisionale, evitando di incappare in una statica posizione da osservatore passivo, in cui quella medesima intelligenza potrebbe arrendersi di fronte alle sue creazioni, sentenziando semplici “Like!” a conferma della propria mancanza di controllo.

 

Ieri hai detto domani. Oggi i giovani sono il futuro della nostra società, la crisi e la scarsità di investimenti rischiano di contrapporre la dimensione personale della realizzazione del sé a quella della competitività delle imprese e dei territori. In che maniera la formazione potrà far conciliare questi due estremi enfatizzando i valori strategici dell’impresa con la valorizzazione della persona nella sua essenza? In che modo la formazione può costruire una situazione ideale in azienda generando entusiasmo e partecipazione?
Sono del parere di dover, primariamente, ridefinire il concetto stesso di “competitività”, rifondarne i parametri che puntino sull’acquisizione di risorse strategiche per l’azienda, dove per “strategiche” intendo profili che, immersi in un mercato contraddistinto da riferimenti diversi rispetto a qualche decennio fa, quali, ad esempio, il contesto socio economico “glo-cal” e la “net-economny”, siano la punta di diamante di un’innovazione che parta davvero dalle idee, dagli stimoli, dalla curiosità delle nuove generazioni. Una corrente di pensiero piuttosto in auge di questi tempi di scarsità e continui sobbalzi è “l’inventarsi un lavoro” che, se da un lato potrebbe anche essere un’idea suggestiva, dall’altro mi domando quanto l’ideazione riesca a sposarsi con la realtà pragmatica di un impiego. Certo, in un mercato altamente fluido, in alcuni settori, un’invenzione dalle grandi potenzialità può creare business e opportunità di espansione, ma, nonostante un ingente quantitativo di idee di cui i giovani possono essere portatori, il contenitore “società del lavoro”, credo abbia cassetti ancora troppo piccoli per dare il giusto spazio a qualcosa di nuovo. In più, altro vincolo rilevante, sono gli investimenti, per cui anche un’idea vincente può brutalmente scontrarsi con una realtà economico burocratica che, lasciando davvero poco respiro all’originalità, ne spegne ogni motivazione o ipotesi di volo.

Da un lato, quindi, un mercato dannatamente aperto alle frontiere ma drammaticamente chiuso in se stesso, dall’altro, una generazione “social” che, generalizzando per sommi capi, studia per un’idea di lavoro, per un’ipotesi che può facilmente cambiare lungo il percorso, adattarsi malvolentieri, prendere la via dell’estero o attendere fiduciosa un’ombra di Godot all’orizzonte. Trovo la formazione come una sorta di area protetta, un territorio ancora esplorabile in cui cercare un orientamento, schiarirsi le idee o ricavarne altre, non tanto per rafforzare le proprie famigerate “skills”, quanto piuttosto per comprendere come potersi realizzare, che tipo di competenze sviluppare e su che tipo di capacità personali investire. Così come un’azienda lavora e cura la crescita del proprio brand, la formazione, per come la vivo per esperienza personale, a suo modo può offrire un contenitore adeguato al mettersi in discussione, al capire e non tanto all’imparare, al condividere e non solo al competere. Non so fino a che punto un valore strategico per l’impresa possa effettivamente mutare in un’azione di valorizzazione della persona ma, essendo un fervente della formazione, credo siano possibili dei buoni connubi che, proprio all’interno di tale area, diano risultati o buone pratiche di crescita (umana) sostenibile. La varietà, la consistenza, la poliedricità di corsi, interventi e seminari formativi costituiscono un auditorium in cui possono trovare voce i bisogni della Persona e i ritorni dell’Impresa; si è passati dall’aula classica alla progettazione di percorsi blended sfruttando metodi e tecnologie di ogni sorta, monitorando da vicino il mercato e le esigenze aziendali nel loro mutare progressivo. Quindi, la formazione può fungere da trait d’union tra Persona e Impresa, costruire spazi ideali di confronto che non siano solo finalizzati a generare entusiasmo ma anche partecipazione attiva da ambo le parti; oggi, credo che la Persona abbia bisogno di calibrare la propria identità lavorativa oltre il nutrimento dato da un efficace e accattivante know how, al fine di conoscere chi fa o chi guida l’Impresa, come si muove un’organizzazione, quali sono i criteri di valorizzazione e le politiche gestionali interne.

Di rimando, l’Impresa deve rendersi più permeabile al confronto diretto, alla conoscenza del “suo pubblico”, che non si compone solo di fornitori, clienti e partner con cui instaurare rapporti solidi e duraturi, ma anche e soprattutto di giovani, da non intendersi quali meri consumatori a seconda del merceologico di riferimento, desiderosi di dare un’identità ad altre Persone, spesso filtrata da annunci di lavoro anonimi o da una rete “social”, a volte sovraccarica di informazioni ma priva di riferimenti “reali”. Così la formazione apre il suo spazio per modellarsi a sua volta, creare forum, tavole rotonde interattive, knowledge communities, sperimentare idee per agevolare un dialogo a due direzioni, ascoltando, conoscendo e vivendo esperienze di contatto finalizzate a comprendere che tipo di tessere Persone e Imprese possono mettere sul tavolo per realizzare un puzzle, sì variegato, ma che abbia un suo disegno di fondo.


 

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